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CIAO 2001

11th May 1980

FILM
American Gigolò

I BLONDIE RITORNANO
AD INCIDERE
E LO FANNO INSIEME A MORODER
PER LA COLONNA SONORA
DI « AMERICAN GIGOLÒ »
CON IL BRANO « CALL ME ».
LA NOSTRA INTERVISTA
CON IL REGISTA PAUL SCHRADER.

Chiamatemi Blondie

Dal nostro corrispondente LOS ANGELES. « Anche se mi piacerebbe rifare il film in modo differente, penso però che la pellicola che ho appena terminato sia quella che mi ero proposta: un film singolare, che sono orgoglioso di avere diretto ». A parlare cosi è Paul Schrader, regista di “American Gigolò”, la cui colonna sonora è di Giorgio Moroder, e il cui è cantato dai Blondie: tre minuti di musica disco (Moroder, com’è noto, è lo scopritore e produttore di Donna Summer), e una ricerca evidente di melodicità. Il tipico tema scritto sotto ordinazione: preciso, piacevole, in cui la voce squillante di Deborah Harry aggiunge intensità. « Call Me » (il titolo del brano) non ha però la forza bruciante di « Heart of Glass » forse perché nato sotto l’inpulso della fatidica telefonata del cineasta frettoloso.
“American gigolò” è uno di quei film la cui storia è già tutta nel titolo. Gigolò significa mantenuto, lenone, il giovane elegante di bell’aspetto ma di dubbia moralità. Il film vuole sottolineare che esistono gigolò americani bianchi e biondi (non solo quindi i tipi latini e i neri) che vendono il proprio corpo al miglior offerente. Richard Gere, protagonista della storia, è disposto a fare “da cavalier servente” a qualsiasi “damigella” che arrivia Los Angeles. Conosce sei lingue: è molti uomini in uno. Un tempo sarebbe stato solo un “lavoratore del marciapiede”, oggi invece è divenuto cosi richiesto che può permettersi di fare il difficile. Nell’ ambiente di Beverly Hills, Malibu Beach, Palm Spring, i ricchi sfondati che ci bazzicano sono cosi preoccupati del dollaro che lasciano le loro mogli a Gere, che fa del suo meglio per accontentarle. Cosi Gere finisce per considerare se stesso una sorta di santone sessuale, quasi un femminista, che usa il sesso come un favore, un’opera pic. E’ un arrivista nietzschiano che sa ciò che che è ingiusto. Ma alla fine tende ad essere cristiano quando una delle sue donnevittime s’innamora di lui e lo salva sacrificando la propria reputazione per testimoniare in suo favore dopo che Gere è stato accusato di assassinio.
Il regista Schrader spiega meglio il suo personaggio nell’ intervista che non nella scena. « Gere è solo capace di dare, non di ricevere – dice – . Cosi ha perfezionato se stesso nell’arte di dare ».
Trentatré anni, Paul Schrader è anche l’autore del soggetto. Prima aveva scritto “Taxi driver” e “Hardcore”, il film che, per essere contro la pornografia, mostrava invece più pornografia che qualsiasi altro. Che Schrader sia, in qualche modo, un confuso? Alcuni critici hanno definito il suo lavoro superficiale, vuoto. « Questo è il punto – ribatte lui -. I critici presumono che se non fai il film esattamente come lo vogliono loro, tu sei un inetto. Io non intendevo affatto eseguire uno studio psicologico sui gigolò. E fare un gigolò puritano calvinista è una trovata cosi perversa che, dicono, non può essere accaduta se non accidentalmente. Ma io non sono scivolato sulla buccia di banana, la buccia l’avevo messa là, premeditatamente, ci ho camminato sopra e sono caduto apposta dopo un ben concepito calcolo ».
Come spieghi, gli chiediamo, che i tuoi personaggi si presentano sempre a metà delle loro vite, senza la dovuta introduzione che ci racconti chi sono?
Schrader: « Li metto in moto. Ci sono poi abbastanza indicazioni e suggerimenti da mettere insieme come i pezzi di un mosaico ».
Perché un film come Gigolò manca di scene erotiche?
Schrader: « Questo è il punto. Nello scritto originale non c’era una sola scena nel letto. E’ l’orgoglio del mio film. E’ l’erotismo di stile ».
Il film, però, rimane in certi punti confuso…
Schrader: « Non puoi essere mai troppo ovvio in una pellicola. Devi lasciare spazio per la mente dello spettatore per muoversi, indagare, immagazzinare ».
L’idea di Schrader di usare Moroder e Blondie per il suo film ristabilirà forse un più frequente interscambio tra cinema e musica. Lavorare insieme offre, per entrambi i settori, enormi possibilità. Uno aiuta l’altro. Si pensi a “Guerre stellari”, a “Rocky”, a “La febbre del sabato sera” a “Grease”. Oltre “Call Me” con Debbie Harry, c’è nel film e nell’ album « Love and passion », scritto da Moroder e dallo stesso Schrader, che però, cantato da Cheryl Barnes, suona ancora più di routine del primo. « Night drive » invece è un pezzo che sprizza ritmo da tutte le parti. « Hello Mr. W.A.M. » è una boriosa adattazione di Morzart in cui però la semplice eco del grande di Salisburgo hanno il potere, come il suo Flauto Magico, di salvare tutto.
Torniamo al film. Schrader ci consegna una visione do Los Angeles quasi ipnotica: di notte e di giorne la città sembra misteriosamente affascinante, incredibile. Lo sfondo aiuta enormemente ad allagare il respiro della vicenda, che è piuttosto schematica. La trasformazione finale di Giuliano da elegantissimo conquistatore in un punk impaurito, è un momento intenso che riscatta l’intera storia, la quale, in fondo, non ha per motivo principale il sesso, ma la precarietà del successo.
E lui, Richard Gere, cos’ha da dire suo personaggio, Giuliano?
Gere: « Giuliano è un intellettuale. Lui non esplode, ma implode”. Cerca sempre di migliorare se stesso. Non ha il sangue blu di chi lo circonda, ma attira ugualmente gli altri. Anche me ».
Come sei riuscito a creare un personaggio simile?, gli domandiamo.
Gere: « Ho fatto molte ricerche. Ho imparato un sacco di sul modo di vestire moderno ed elegante di Westbood, sui libri che Giuliano avrebbe dovuto avere intorno a lui. Prendo il mio lavoro molto seriamente, ma non sono troppo serio con il mio lavoro. C’è differenza. Ogni personaggio che ho interpretato, proviene da me e ritorna a me ».
Ad un grande party dato ad Hollywood in occasione della prima di “American gigolò, era presente la “crema” discografica della città. « Questo è il più grande e forse l’ultimo party rock’n’roll », ha commentato un magnate dell’industria discografica. « Bene – ha aggiunto un secondo magnate – chi potrebbe sopravvivere ad un altro? ».
Un muro della sala era tutto coperto di dischi d’oro e di platino (il party era stato organizzato dalla Chrysalis). Improvvisamente arrivano i membri del gruppo Blondie, circondati dal loro esercito di gorilla e guardie del corpo, e il party riceve un’ondata di elettricità. Si sente che sta accadendo un “evento”. Ed ecco Deborah, verso cui i fotografi partono ferocemente all’attacco. La sirena del gruppo, in camicetta nera sciolta e pantaloni attillati, è veramente carina. « E’ la Marylin Monroe degli anni Ottanta », si sussurra.
Il gruppo si unisce a lei. Cantano « Call me ». La canzone ci appare per un momento bellissima, è l’attimo culminante della serata. I Blondie, ho saputo dopo, erano arrivati in carro armato, in mezzo ad una folla delirante. Qualcosa di simile ai Beatles, ma più intenso. Per andare alla toilette Deborah, più tardi, è stata accompagnata de tre guardie. Il manager dei Blondie, Denny Vosbureh, commenta: « Siamo anche i manager di Alice Cooper, ed a questo ci siamo abituati ».
William Donati

DEBBIE HARRY
morbide carezze bionde

Deborah Harry, la dolce biondina, la nuova reginetta del pop-rock adolescente degli anni Ottanta, non è né una biondina né una adolescente. Essa è nata infatti a Miami, in Florida, nel 1946, e i suoi capelli erano scurissimi: e tali lo sono restati per lo meno fino agli inizi degli anni Settanta. Ma tutto questo, in fondo, importa poco. Sappiamo benissimo che – a torte o a ragione – nel rock quel che conta veramente è come si appare, non come si è. Ovvero, se può essere consentito il gioco do parole, in genere la pop-star, per milioni di « aficionados », è ciò che appare.
Debbie ci appare dunque come una bionda, dolce ragazzina, colei che tutti vorrebbero incontrare ad un party. E allora, prima di tutto, cerchiamo di conoscerla un po’ meglio. Dunque, ancora bambina, Debbie segue la famiglia nel New Jersey, e in quello stato, tra una cittadina e l’altra, trascorre la sua adolescenza. La sua prima esperienza di canto la svolge, come è poi il caso di parecchie pop-stars, nell’ambito del coro della chiesa. Poi un bel giorno decide di non poterne più di quella vita, e scappa da casa.
Come ogni provinciale americano che aspiri al successo nel mondo dello spettacolo musicale, Debbie approda a New York all’alba degli anni Settanta, e trova un posto di cameriera nel famigerato locale Max’s Kansas City: il quale è allora il vero tempio dell’avanguardia newyorkese, in campo musicale, letterario, cinematografico. Là tiene banco lo scrittore metropolitano Hubert Selby jr., là mondaneggia il regista Andy Warhol con la sua corte radical-chic, là si esibiscono con vellutato furore i Velvet Underground di Lou Reed, pionieri di una nuova era musicale che non avrebbe tardato a manifestarsi. Di tale nuova era musicale, Debbie sarebbe diventata una degli esponenti più in vista. Ma all’epoca non lo sapeva ancora. Per arrotondare il magro salario, si esibisce anche in succulenti servizi fotografici “senza veli” per alcune riviste specializzate (che oggi ovviamente, per i collezionisti, non hanno prezzo…).
Verso il 1974, sulla scia dei Velvet Underground, i New Yerk Dolls aprono a New York la nuova era musicale, quella del punk-rock elettrico dell’ emarginazione metropolitana. Accanto al Max’s Kansas City, sorge il nuovo tempio del punk cittadino: è il CBGB’s, situato nella Bowery Street, la via dell’emarginazione newyorkese. Al CBGB’s, Debbie Harry (ormai diventata bionda a tutta gli effetti) trova posto stavolta non come cameriera, bensi come esponente di un trio punk/rhythm & blues femminile, le Stilettoes. Le tre ragazze cantano e ballano, accompagnate da tre ragazzi, tra cui un certo Chris Stein, che presto diventa il boy-friend ufficiale di Debbie. Accanto agli Stilettoes sorge la scena punk newyorkese: Television, Ramones, Miamis, Talking Heads, Suicide, Dead Boys… Con i maggiori esponento del nuovo underground, Debbie interpreta il film « Unmade bods » del regista sperimentale Amos Poe. Scioltesi le Stilettoes per motivi di incompatibilità di carattere, Debbie e Chris con altri amici formano i Blondie nel 1976.
Il resto è storia di oggi: l’incontro risolutivo con il produttore Mike Chapman, i quattro album, il successo internazionale, i due nuovi film appena finiti di girare ( « Union City » e « Roadie » ), la canzone per il soundtrack di « American gigolo » … E soprattutto l’imposizione di un nuovo modello nell’ambito del pop-rock degli anni Ottanta: quello della ragazza/centro catalizzatore del gruppo, un esempio già seguito da Chrissie Hynde dei Pretenders e Martha Davis dei Motels.
Manuel Insolera

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